L'INFERNO DI VENERE.
- Andrea
- 3 août
- 12 min de lecture
Per molto tempo, Venere è stata considerata la gemella della Terra.
Nel Sistema Solare, è obiettivamente il pianeta che più le somiglia per dimensioni, massa e composizione.
Per decenni si è fantasticato su cosa avremmo trovato il giorno in cui le sonde spaziali sarebbero riuscite a penetrare quelle spesse nubi giallastre: mari, oceani, vegetazione, forme di vita complesse e forse persino un mondo abitabile, pronto ad accogliere l’uomo.
Ma quando quel giorno arrivò, ci si rese conto che Venere era tutt’altro che simile alla Terra. Nei miliardi di anni di storia dei due pianeti, qualcosa era accaduto: qualcosa che aveva reso l’uno un paradiso, l’altro… un inferno.
Questo video illustra i fenomeni che hanno trasformato un pianeta apparentemente simile alla Terra in uno dei luoghi più ostili del Sistema Solare, ed espone le principali ipotesi sulla presenza di vita in un lontano passato e sulla possibilità di missioni abitate in un altrettanto lontano futuro.
Immaginate un mondo avvolto da nubi di acido corrosivo, così dense da oscurare il Sole, per sempre.
Un mondo rovente dove la temperatura fonderebbe il piombo e dove la pressione atmosferica schiaccerebbe un sottomarino.
Un mondo che per secoli abbiamo chiamato “il gemello del pianeta Terra”, prima che ci mostrasse il suo vero volto.
GEMELLI DIVERSI.
Per molto tempo, Venere è stata considerata la gemella della Terra. E non senza motivo, perché nel sistema solare è obiettivamente il pianeta che più le somiglia per dimensioni, massa e composizione. Ed è anche quello la cui orbita le si avvicina di più, a soli 40 milioni di chilometri.
Il suo diametro misura circa 12 mila 100 chilometri, appena 600 in meno di quello della Terra, e la gravità in superficie è pressoché identica: su Venere peseremmo il 91% del nostro peso terrestre.
Anche la struttura interna è analoga a quella della Terra: un nucleo ferroso, un mantello di silicati e una crosta rocciosa in superficie.
Tutto lasciava pensare che Venere potesse davvero essere un mondo simile al nostro.
E per decenni si è fantasticato su cosa avremmo trovato il giorno in cui le sonde spaziali sarebbero riuscite a penetrare quelle spesse nubi giallastre che, riflettendo la luce del Sole, rendono Venere l’astro più luminoso del cielo notturno. Dopo la Luna ovviamente.
Mari, oceani, vegetazione, forme di vita complessa…Forse persino un mondo abitabile, pronto ad accogliere l’uomo.
Ma quando quel giorno arrivò, ci si rese conto che Venere era tutt’altro che simile alla Terra. Nei miliardi di anni di storia dei due pianeti, qualcosa era accaduto: qualcosa che aveva reso l’uno, un paradiso, l’altro… un inferno.
UN PIANETA TERRIFICANTE.
Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare e dista circa 107 milioni di chilometri dal Sole, da cui riceve un’irradiazione di 2600 watt per metro quadrato: quasi il doppio rispetto a quella che raggiunge la Terra.
Compie un’orbita attorno alla nostra stella in 225 giorni terrestri, ma ruota così lentamente su se stessa che un giorno venusiano dura più di un anno. Questo fenomeno potrebbe essere il risultato di diversi fattori: a cominciare dalle forze mareali esercitate dal Sole che avrebbero progressivamente rallentato la rotazione del pianeta; oppure l’effetto di un gigantesco impatto avvenuto nelle fasi primordiali della sua formazione, che spiegherebbe anche la sua rotazione retrograda, ovvero in senso opposto rispetto a quasi tutti gli altri pianeti del Sistema Solare, con la sola eccezione di Urano.
E infine, a contribuire a questa rotazione lentissima, ci sarebbe anche l’atmosfera stessa di Venere: così densa da esercitare un attrito tale da opporsi al movimento rotatorio, rallentandolo progressivamente nel tempo.
Pensate che l’atmosfera di Venere è talmente densa che, sebbene l’azoto rappresenti appena il 3% del totale, la sua quantità assoluta supera quella presente nell’atmosfera terrestre, dove invece l’azoto è il gas dominante al 78%. E questa densità estrema ovviamente ha un peso e genera una pressione al suolo 92 volte superiore a quella terrestre: l’equivalente di ciò che sperimenteremmo a circa 1000 metri di profondità nei nostri oceani, quando la maggior parte dei sottomarini resiste fino ad un massimo di 500.
Inoltre l’atmosfera di Venere è composta dal 96,5% di anidride carbonica.
Eh, giusto per rendere l’idea: sulla Terra l’anidride carbonica rappresenta appena lo 0,04% dell’atmosfera e nonostante questo la scienza, a giusto titolo, ci mette in guardia sulle conseguenze del suo costante aumento. Ma questo non è il tema di oggi.
Su Venere, questa saturazione di anidride carbonica produce l’effetto serra più devastante dell’intero sistema solare, spingendo la temperatura fino a 470 gradi, ovunque sul pianeta: ai poli come all’equatore, di giorno come di notte, senza nessuna tregua.
In queste condizioni di temperatura e pressione estreme l’aria non è più nemmeno un gas, ma diventa un “fluido supercritico”, ovvero una sostanza ibrida che non è né liquido né gas, ma che presenta proprietà di entrambi gli stati e in cui persino la luce e i suoni si propagano in modo… surreale. Su Venere, percepiremmo immagini tremolanti e suoni smorzati… se non fosse che moriremmo ben prima di rendercene conto.
Un fluido supercritico trasporta il calore in maniera più efficiente di un gas e trasforma ogni angolo della superficie del pianeta in una fornace rovente.
L’unico modo per sfuggire a queste condizioni soffocanti sarebbe quello di salire in quota. La vetta più alta su Venere è il monte Skadi che si eleva per oltre 10’000 metri, ma se riuscissimo a salire a circa 55’000 metri di altitudine, troveremmo una pressione e una temperatura molto più simili a quelle terrestri.
Peccato che qui ci attenda una spessa coltre di nubi cariche di acido solforico, altamente corrosivo. A queste quote, i raggi ultravioletti del Sole innescano una serie di reazioni chimiche che trasformano l’anidride solforosa emessa dall’intensa attività vulcanica in acido solforico.
L’acido può condensare e cadere sotto forma di pioggia… ma senza mai raggiungere il suolo, perché la temperatura della bassa atmosfera lo fa immediatamente evaporare, riportandolo allo stato gassoso e alimentando così l’eterno ciclo chimico delle nubi acide.
A quanto pare, nessun angolo del pianeta offre una via di scampo.
LA GENESI DELL’INFERNO.
Cosa ha reso un pianeta così apparentemente simile alla Terra uno dei luoghi più ostili del Sistema Solare?
Sono molti i fattori che hanno contribuito al disastro climatico che regna su Venere. Nel corso della sua storia, si è innescato un circolo vizioso in cui diversi fenomeni si sono alimentati e rafforzati a vicenda.
Durante la fase di raffreddamento della sfera di roccia fusa da cui Venere, così come la Terra, ha avuto origine, il degassamento del mantello liberò nell’atmosfera primordiale enormi quantità di gas pesanti: anidride carbonica, metano e composti dello zolfo. E secondo alcune stime, anche l’atmosfera primordiale terrestre conteneva tra il 25 e il 50% di CO₂. Ma mentre sulla Terra si sono attivati processi capaci di interrompere ed invertire l’effetto serra, su Venere l’effetto serra si è amplificato e accelerato nel tempo. Ed è qui che le strade e i destini dei due pianeti prendono strade diverse.
Essendo più vicina al Sole, la superficie di Venere è, fin dal principio, naturalmente più calda di quella della Terra. E questo calore superficiale elevato ha, per così dire, “strozzato” il “gradiente termico”, cioè la differenza di temperatura tra gli strati interni di un pianeta; crosta, mantello, nucleo. Potremmo essere portati a dare poca importanza a questo fattore, pensando che ciò che conta, in fondo, sia solo la temperatura percepita in superficie. Ma in realtà è proprio la differenza di temperatura tra gli strati interni di un pianeta a mettere in moto i cosiddetti movimenti convettivi nel mantello.
Sulla Terra è proprio il gradiente termico elevato, ovvero la marcata differenza di temperatura tra i vari strati, a far sì che il materiale caldo e meno denso risalga verso la crosta, mentre quello più freddo e più denso sprofondi verso l’interno. Questo rimescolamento continuo dà origine a un fenomeno cruciale per la stabilità climatica del nostro pianeta: la tettonica a placche. Un meccanismo la cui assenza su Venere… ha creato un bel po’ di problemi.
Perché la tettonica a placche, oltre a frammentare e a muovere la crosta terrestre, gioca anche un ruolo chiave in un processo meno visibile ma fondamentale: il ciclo del carbonio.
Abbiamo già parlato di questo processo in un altro video, ma, in breve, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera terrestre viene in parte fissata e assorbita dalle rocce e, nel corso di ere geologiche, ritorna nel mantello, quindi viene rimossa dall’aria, attraverso la subduzione delle placche oceaniche che sprofondano verso l’interno del pianeta. Questo ciclo, lento ma costante, ha permesso di regolare la concentrazione di CO₂ nell’atmosfera terrestre.
Su Venere questo meccanismo non si è mai attivato. Il basso gradiente termico, l’assenza di movimenti convettivi e di tettonica a placche ha impedito l’avvio di un ciclo del carbonio in grado di riequilibrare il CO₂ atmosferico. E l’effetto serra è cresciuto senza freni.
Inoltre, la crosta compatta, rigida, non frammentata da una attività tettonica, ha anche impedito un rilascio più graduale del carbonio contenuto nel mantello. Secondo alcuni modelli, il calore accumulato nel mantello di Venere avrebbe dato origine a enormi eruzioni vulcaniche episodiche, che in tempi relativamente brevi avrebbero rilasciato nell’atmosfera quantità colossali di anidride carbonica che, senza un ciclo di riassorbimento, si è accumulata saturando l’atmosfera in modo irreversibile.
L’effetto serra così innescato… ha fatto il resto.
Quindi, per riassumere tutto d’un fiato questo cerchio infernale: dal degassamento iniziale, l’elevato calore superficiale ha ridotto il gradiente termico, che ha impedito la convezione interna e, di conseguenza, lo sviluppo della tettonica a placche. Niente tettonica a placche, niente ciclo del carbonio.
E senza un ciclo del carbonio, l’anidride carbonica si è accumulata senza freni, aggravata da fenomeni vulcanici esplosivi causati dal calore intrappolato in un mantello, per così dire, “rigido”.
Ed ecco servito un effetto serra catastrofico, che ha spinto temperatura e pressione a livelli estremi.
Una catena di retroazioni amplificanti che, su Venere, si è chiusa troppo presto e troppo in fretta… segnando per sempre il destino infernale del pianeta.
ACQUA E VITA SU VENERE.
Gli studi sulla possibile presenza di acqua su Venere in un passato lontano divergono su diversi punti. Alcuni ritengono che non sia semplicemente mai stata presente su Venere in quantità significative, mentre altri (e sembra essere l’ipotesi più condivisa) sostengono invece che Venere abbia avuto oceani simili a quelli terrestri, poi scomparsi in tempi relativamente rapidi.
In ogni caso, dobbiamo essere chiari su una cosa: molto probabilmente la sola presenza di acqua non avrebbe comunque cambiato il destino di Venere. Anzi, in un certo senso avrebbe persino potuto peggiorare le cose.
Come abbiamo visto nel video sul riscaldamento globale, il vapore acqueo è uno dei gas serra più potenti.
Quindi, qualora Venere avesse avuto oceani, la loro evaporazione avrebbe potuto alimentare ulteriormente l’effetto serra, innescando un aumento ancora più rapido della temperatura e accorciando, paradossalmente, la durata di un eventuale “periodo mite” sul pianeta.
Con il progressivo aumento della temperatura, gli oceani sarebbero evaporati entro un periodo compreso dai 500 milioni ai 2 miliardi di anni, a seconda dei vari studi. L’acqua, trasformata in vapore acqueo, avrebbe raggiunto gli strati alti dell’atmosfera dove i raggi ultravioletti del Sole ne avrebbero spezzato le molecole separando idrogeno e ossigeno. E in assenza di un campo magnetico, anch’esso legato alla mancanza di movimenti convettivi interni, i venti solari avrebbero disperso nello spazio gli atomi più leggeri come l’idrogeno, senza possibilità di ritorno. Fine della storia dell’acqua su Venere.
E per come conosciamo la vita e la sua evoluzione, e sottolineo: per come la conosciamo noi, non c’è alcun motivo di pensare che, se mai apparse, le forme di vita su Venere siano state diverse da quelle che popolavano la Terra nei primi 2 miliardi di anni: ovvero organismi unicellulari procarioti, estremamente semplici, che non hanno avuto il tempo di evolversi in qualcosa di più complesso.
Trovarne le tracce, oggi, sarebbe praticamente impossibile.
La superficie di Venere, nel corso del tempo, è stata più volte ricoperta da colate di basalto, generate dall’intensa attività vulcanica che ha sepolto ogni possibile indizio del passato.
UN LUNGO ASSEDIO.
La relativa vicinanza alla Terra, e soprattutto la convinzione che potesse essere un pianeta gemello abitabile e ricco di risorse, fecero di Venere una meta privilegiata delle prime missioni spaziali a partire dagli anni ’60.
Oltre 50 missioni sono state intraprese per svelarne i misteri, e più della metà si concluse con un fallimento. Soprattutto nei primi anni non si conoscevano ancora le condizioni estreme che regnavano sul pianeta, e le sonde non erano progettate per resistere a temperature capaci di fondere il piombo e a pressioni che avrebbero accartocciato anche le strumentazioni più robuste.
La sonda americana Mariner 2 del 1962 fu la prima missione interplanetaria riuscita della storia, ma si limitò soltanto a un sorvolo di Venere da una distanza di 34 mila 833 km (circa un decimo della distanza Terra-Luna). Fu comunque sufficiente per rilevare i primi dati fondamentali: l’assenza di un campo magnetico, l’improbabile presenza di acqua e una temperatura elevatissima: i primi indizi di un mondo che incominciava ad apparire tutt’altro che accogliente.
Tra il 1960 e il 1967, l’Unione Sovietica lanciò più di dieci sonde e nessuna arrivò a destinazione. Alcune esplosero lancio, altre si persero nello spazio interplanetario.
Solo nel 1967, Venera 4 riuscì ad entrare nella bassa atmosfera venusiana. Durante la discesa, trasmise i dati che confermarono una temperatura vicina ai 500 gradi e rivelarono un’atmosfera composta per il 96% da anidride carbonica. Smise improvvisamente di trasmettere a 24 km dal suolo. All’epoca, si stimava che la pressione atmosferica di Venere fosse “solo” 20 volte superiore a quella della Terra. Un valore già elevatissimo, ma ancora lontano dal valore che si sarebbe scoperto in seguito: 92 atmosfere terrestri di pressioni che avrebbero distrutto qualunque strumentazione. Per far resistere le sonde più a lungo, serviva un’ingegneria più sofisticata e materiali più resistenti.
Dovremo aspettare fino al 1970 per celebrare una missione riuscita sulla superficie di Venere.
Venera 7: la prima sonda ad atterrare con successo su un altro pianeta.
35 minuti di discesa e appena 20 minuti sulla superficie: questa fu la sua breve ma storica durata di vita prima di soccombere all’inferno venusiano.
Nel 1975, ancora delle sonde sovietiche, Venera 9 e 10, regalarono al mondo le prime immagini, mentre Venera 13 e 14 nel 1982, effettuarono la prima registrazione audio.
Negli anni successivi, molte altre sonde continuarono ad affrontare il pianeta con un tasso di successo sempre maggiore, ma il verdetto era ormai inappellabile: Venere era quanto di più simile alla definizione dell'inferno. Le missioni su Venere non imbarcavano più quella speranza che avrebbe dato un nuovo significato alla conquista spaziale e cambiato la posta in gioco: trovare un mondo abitabile, e magari anche già abitato, così vicino alla Terra.
LA VITA OLTRE LE NUVOLE.
2 ore: questo è il record di sopravvivenza di una sonda sul suolo di Venere. A titolo comparativo, il rover Opportunity effettuò operazioni sul suolo di Marte per più di 14 anni, nonostante fosse stato concepito per una attività di solo 90 giorni.
14 anni su Marte, 2 ore su Venere: questo ci aiuta a comprendere meglio le condizioni infernali a cui le sonde sono state sottoposte nel corso degli anni di esplorazione.
Ma abbiamo visto che in altitudine le condizioni sembrano più clementi. A circa 55 chilometri di quota, la temperatura è molto più bassa e la pressione atmosferica è simile a quella terrestre. E in effetti i palloni-sonda delle missioni Vega del 1985 fluttuarono nell’atmosfera di Venere per quasi due giorni, trasmettendo dati fino all’esaurimento delle batterie e fornendo una prova concreta dell’esistenza di condizioni meno estreme ad alta quota.
Alcuni biologi hanno persino ipotizzato che forme di vita estremofile, capaci di resistere all’acido solforico delle nubi, possano sopravvivere proprio in questa fascia dell’atmosfera venusiana. Nel 2020 un gruppo di ricercatori ha annunciato di aver rilevato tracce di fosfina, un composto chimico che, in assenza di altri processi conosciuti in grado di produrlo, potrebbe rappresentare la firma di microrganismi anaerobi in attività tra le nubi acide del pianeta. Tuttavia, la comunità scientifica rimane molto scettica e diversi studi successivi hanno messo in discussione sia l’interpretazione dei dati, sia la validità stessa delle osservazioni.
E poi c’è il progetto della NASA del 2015: HAVOC, acronimo di High Altitude Venus Operational Concept. Esplicitamente ispirato alla fantascienza, lo studio esplorava la possibilità di realizzare missioni con equipaggio umano all’interno di habitat volanti tra le nubi di Venere, proprio a quei 55 chilometri di altitudine.
Il piano prevedeva cinque fasi di complessità crescente: dalla semplice esplorazione robotica come sopralluogo della zona, alle missioni umane di una durata sempre più lunga, fino all’ultima fase che consisteva nell’installazione di una vera e propria base permanente abitata sospesa nell’atmosfera.
Si è fantasticato molto su questo progetto, ma in realtà lo studio della Nasa metteva ben in evidenza le enormi sfide tecniche da affrontare: la corrosione dovuta all’acido solforico, la gestione termica degli strumenti (poiché anche a quella altitudine la temperatura può raggiungere i 75 °C), la stabilità dei dirigibili soggetti a venti fortissimi, e la difficoltà di effettuare manovre di decollo o atterraggio su superfici in movimento.
Per non parlare di tutte le incognite legate alla sicurezza dell’equipaggio.
La NASA stessa non ha mai smesso di dichiarare che il progetto HAVOC non ha mai previsto una fase di realizzazione e che si limitava semplicemente ad uno studio preliminare puramente teorico. Ad oggi, alla luce delle odierne capacità tecniche e tecnologiche, l’installazione di una presenza umana su Venere… diciamo che è sufficientemente pensabile da aver giustificato uno studio, seppur teorico, da parte della NASA, ma talmente irrealizzabile da doversi considerare pura fantascienza.
CONCLUSIONE
Carl Sagan disse che Venere è un ammonimento cosmico: un esempio di ciò che accade ad un pianeta travolto da un effetto serra fuori controllo.
In realtà è giusto dire che l’attività umana non potrà mai trasformare la Terra in un inferno come Venere. Anche bruciando tutte le riserve di combustibili fossili del pianeta, non si raggiungerebbe nemmeno lontanamente la quantità di CO2 presente nell’atmosfera venusiana.
E in questo video abbiamo visto che quanto è avvenuto su Venere è sì il risultato di un effetto serra fuori controllo, ma innescato e alimentato da una combinazione di fattori planetari che, per il momento e per fortuna, l’attività umana, per quanto nefasta, non ha semplicemente il potere di innescare qui sulla Terra.
Con questo non voglio certo contraddire Sagan e tutti i climatologi che lanciano il suo stesso avvertimento, ma ciò da cui la comunità scientifica ci mette in guardia, non è tanto la possibilità che la Terra diventi come Venere, quanto il fatto che per estinguere l’umanità o ridurla a condizioni di vita decisamente non auspicabili potrebbe bastare molto meno di quanto è avvenuto su Venere. Molto molto meno.
Vi do appuntamento al prossimo episodio e nel frattempo, cari amici, continuate ad appassionarvi di scienze. A presto.
FONTI:
“Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space.” Carl Sagan, 1994.




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