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IL PIANO PER LASCIARLI A MORIRE SULLA LUNA.

  • Photo du rédacteur: Andrea
    Andrea
  • 20 avr.
  • 11 min de lecture

Qual era il peggior incubo della NASA durante la missione Apollo 11 del 1969, che portò per la prima volta l’umanità a camminare sulla Luna?


Non era la morte di Armstrong e Aldrin, bensì il dover annunciare al mondo che non c’era modo di farli ripartire dalla superficie lunare. Che sarebbero rimasti lì… sulla Luna, a morire in una lenta agonia, davanti agli occhi impotenti di tutta l’umanità.


Alcuni funzionari della Casa Bianca e della NASA avevano redatto un piano, un protocollo da attivare qualora le circostanze avessero obbligato l’agenzia spaziale ad abbandonare gli astronauti sulla Luna, ancora in vita.


Il piano si chiamava “In Event of Moon Disaster”.



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Il 20 luglio 1969, con il fiato sospeso, oltre mezzo miliardo di persone seguiva in diretta la missione Apollo 11.

L’umanità stava per posare, per la prima volta, il piede su un altro corpo celeste: la Luna.


Pochi erano davvero coscienti di quanto quell’impresa fosse appesa ad un fragile filo.

E forse nessuno immaginava che, nell’ombra, tutto fosse già pronto.

Pronto per far della Luna la tomba degli astronauti.




IL FALLIMENTO NON E’ UN’OPZIONE.


Non abbiamo mai perso un americano nello spazio; e non ne perderemo uno sotto la mia sorveglianza! Il fallimento non è un'opzione.” Queste sono le parole attribuite a Gene Kranz, il leggendario direttore di volo della NASA, intento a spronare il suo staff affinché trovasse, a tutti i costi, un modo per riportare a casa gli astronauti della missione Apollo 13, quando tutto sembrava ormai perduto. Era il 1970.


In realtà, per cominciare subito a sfatare un mito, questa frase, che sarebbe poi diventata un passaggio iconico del film Apollo 13 di Ron Howard, non fu mai pronunciata da Gene Kranz, ma rifletteva talmente bene lo stato d’animo di quelle circostanze drammatiche che lo stesso Kranz decise, 30 anni più tardi, di utilizzarla come titolo della sua autobiografia: “Failure is not an option”.


Conoscete già come finì la storia di Apollo 13. La Nasa stessa definì quella missione come il suo “fallimento di maggior successo”, in quanto fu un disastro alla luce degli obiettivi che si era prefissata, ma fu un’incredibile riuscita per l’ingegnosità e la perseveranza con cui riuscì a riportare a casa e a salvare i 3 astronauti ormai dati per spacciati.


Ma dunque il fallimento non era un'opzione per la Nasa? Beh di questo non sarei così sicuro.

Lo era eccome un’opzione: una possibilità per cui costruire un piano.


Gene Kranz era anche il direttore di volo della missione Apollo 11, quella che, solo un anno prima, aveva portato sulla Luna Neil Armstrong e Buzz Aldrin. E allora viene da chiedersi se Kranz fosse a conoscenza del protocollo segreto, redatto da alcuni funzionari della Casa Bianca e della NASA, da attivare qualora le circostanze avessero imposto l’abbandono degli astronauti, condannandoli a morire sulla Luna.




“IN CASO DI DISASTRO LUNARE”.


Qual era il peggior incubo della NASA durante la missione Apollo 11? No… non era la morte degli astronauti.

Perché quando si lancia una missione verso un altro mondo, la possibilità di non tornare indietro fa parte del patto, oggi come allora. Tutti, dagli ingegneri agli astronauti, ne erano consapevoli.

Lo spazio non perdona. E spesso, quando qualcosa va irrimediabilmente storto, qualcuno perde la vita.


Apollo 11, a differenza delle missioni precedenti, che si erano limitate ad orbitare attorno alla Luna o a sorvolarne la superficie, era la prima a prevedere l’atterraggio di esseri umani sul suolo lunare. L’allunaggio.


Ma posarsi sul suolo della Luna era solo la prima metà dell’avventura. Perché poi, da lì, bisognava anche riuscire a ripartire e a tornare a casa.


Un’operazione, questa, mai eseguita prima. Certo, simulata mille volte sulla Terra, ma mai realmente eseguita in condizioni reali con la gravità lunare, l’assenza di atmosfera, e soprattutto con quella finissima polvere abrasiva che si sarebbe insinuata ovunque: nei giunti, nei motori e nei contatti elettrici del modulo lunare.


Dopo oltre ventotto ore durante le quali sarebbe rimasto fermo sulla superficie lunare, nessuno avrebbe potuto affermare con certezza che, Eagle, il modulo lunare, sarebbe riuscito a ripartire.


Nessuna missione di salvataggio sarebbe stata possibile. Apollo 12 sarebbe partito solo mesi dopo.


E allora… ovviamente nessuno insinua che alla NASA non importasse della vita dei suoi uomini, ma il vero incubo, il peggiore di tutti, non era la morte di Armstrong ed Aldrin, bensì il dover annunciare al mondo che non c’era modo di farli ripartire.

Che sarebbero rimasti lì…sulla Luna, a morire in una lenta agonia, davanti agli occhi impotenti di tutta l’umanità.


Il protocollo segreto chiamato “In event of Moon disaster”, fu pensato nei minimi particolari.


Il piano prevedeva che il presidente Nixon contattasse personalmente le famiglie degli astronauti per informarle del loro destino.


Armstrong ed Aldrin avrebbero avuto la possibilità di un ultimo contatto con i loro cari, per un ultimo angosciante addio, poi la NASA avrebbe interrotto ogni comunicazione radio con la Luna, con gli astronauti ancora in vita e liberi di decidere come spendere, da soli, le loro ultime ore e forse anche come mettervi fine.


Il piano includeva anche una cerimonia religiosa trasmessa in TV, con un ecclesiastico che avrebbe celebrato il rito funebre dei marinai sepolti in mare, per quegli uomini che sarebbero morti nel più profondo degli abissi.


Ed infine, il discorso presidenziale alla nazione e al mondo intero, l’ultimo drammatico atto del protocollo.


Il destino ha stabilito che gli uomini che sono andati sulla Luna per esplorare in pace, vi resteranno per riposare in pace.

Questi uomini coraggiosi, Neil Armstrong e Edwin Aldrin, sanno che non c’è speranza di ritorno. Ma sanno anche che, nel loro sacrificio, c’è speranza per l’umanità.

Saranno pianti dalle loro famiglie e dai loro amici; saranno pianti dalla loro nazione; saranno pianti da tutti i popoli; saranno pianti dalla Madre Terra, che ha osato inviare due dei suoi figli verso l’ignoto.

Altri seguiranno, e certamente troveranno la via del ritorno. La ricerca dell’uomo non potrà essere fermata.

Ma questi uomini sono stati i primi, e resteranno i primi nei nostri cuori.

Per ogni essere umano che alzerà gli occhi alla Luna nelle notti che verranno, ci sarà un angolo di un altro mondo che appartiene, per sempre, all’umanità.


La sorte volle che questo discorso non dovesse mai essere pronunciato e rimase segreto, nascosto insieme al resto del piano, per tutta la durata delle missioni Apollo.


Soltanto negli anni ‘90, il grande pubblico ne venne a conoscenza, quando William Safire, proprio l’autore del discorso, ne accennò l’esistenza durante un’intervista.


Il testo fu poi pubblicato integralmente ed oggi è disponibile negli archivi ufficiali degli Stati Uniti.


Ma resta un’ombra mai dissolta, una domanda un po’ macabra, ma inevitabile: cosa avrebbero fatto Armstrong ed Aldrin nell’attesa della morte? Fino a dove si spingeva la pianificazione del protocollo?


Non è chiaro se sarebbe stato lasciato loro un modo per abbreviare le loro sofferenze, magari con una pillola letale. Ancora oggi la NASA nega categoricamente di fornire mezzi per il suicidio agli astronauti, poiché questo sarebbe contrario al codice etico e professionale, ma il dubbio è legittimo quando il rientro non può essere garantito, come nel caso della missione Apollo 11.


Ma è anche vero che, per morire rapidamente sulla Luna… Armstrong e Aldrin avrebbero avuto solo l'imbarazzo della scelta, si sarebbe trattato solo di scegliere… il “modo migliore”. Aprire un condotto e far fuoriuscire l’ossigeno per perdere conoscenza in meno di 30 secondi, disconnettere i sistemi di supporto vitale oppure semplicemente esporsi al vuoto spaziale per morire rapidamente per decompressione.


In ogni caso una volta terminato l’ossigeno dopo una stima di 24 ore, i 2 astronauti sarebbero morti per asfissia, lontani dal mondo, lontani da tutto, nel silenzio assoluto del vuoto lunare.




ALLUNAGGIO SUL FILO DEL RASOIO.


Qual era davvero il rischio che qualcosa della missione Apollo 11 andasse storto?


Difficile da dire, ma poco prima della sua morte avvenuta nel 2012, in una delle rarissime interviste concesse, Neil Armstrong rivelò che, quando accettò la missione, stimava al 50% le probabilità di riuscire nell’allunaggio al primo tentativo, e a un più ottimistico 90% quelle di tornare sani e salvi sulla Terra.

Un rischio che, alla luce della posta in gioco, Armstrong considerò accettabile.


Ma viene da chiedersi se, col senno di poi, quella stima non fosse stata un po’ troppo generosa.

Perché, in più di un’occasione, Apollo 11 non solo rischiò di fallire la missione, ma anche di condurre i suoi uomini incontro a un destino tragico, e forse di indurre la NASA a dover attivare il protocollo segreto.


La missione Apollo 11 era un intreccio di operazioni mai provate prima, o collaudate solo poche volte.

Certo, la NASA aveva pianificato, simulato e protocollato ogni fase fino allo sfinimento, ma rimaneva comunque una parte non trascurabile di incognite che nessun calcolo avrebbe potuto controllare.

E allora, per quella parte, si sarebbe dovuto, senza vergogna, fare appello alla fortuna.


Il viaggio verso la Luna durò tre giorni, durante i quali, per la maggior parte del tempo, gli astronauti non ebbero in vista né la Terra né la Luna. Soli in un vuoto senza riferimenti, immersi nel buio assoluto dello spazio profondo. Fu solo quando si avvicinarono alla loro destinazione, che il modulo di comando principale, il Columbia, effettuò una rotazione sul proprio asse, e fu allora che la Luna apparve.

Michael Collins, il terzo astronauta con Armstrong ed Aldrin, affermò: "Era straordinaria, ma non sembrava affatto ospitale.”


Il 19 luglio, il Columbia passò dietro la Luna e accese il motore principale per stabilizzarsi in orbita.

Durante le orbite successive, l’equipaggio poté visualizzare il sito di allunaggio prestabilito e scelto sulla base dei rilevamenti delle missioni precedenti: un’area apparentemente liscia, priva di rocce o grandi crateri, situata in quella zona chiamata Mare della Tranquillità.


Collins rimase in orbita a bordo del modulo di comando, mentre Armstrong e Aldrin entrarono nel modulo lunare, Eagle, che si separò per iniziare la discesa verso la Luna.

E fin da subito… le cose non andarono esattamente come previsto.


I punti di riferimento sulla superficie lunare iniziarono a defilare con diversi secondi di anticipo sulle previsioni, troppo presto. Stavano volando troppo veloci rispetto ai calcoli e fu subito chiaro che sarebbero atterrati lontani dal punto prestabilito.


Ma gli astronauti non ebbero il tempo di preoccuparsi del loro punto di atterraggio.

Ad appena 1.800 metri dalla superficie, il computer di bordo iniziò ad emettere una serie di angoscianti allarmi: i famigerati codici “1202” e “1201” che stavano indicando un sovraccarico della memoria, il che significava che il computer di guida non poteva completare tutti i suoi compiti in tempo reale e doveva sospenderne alcuni.

Ma dopo quanti la missione sarebbe stata irrimediabilmente compromessa?


Non sapremo mai, in quei secondi, quanto forte Armstrong abbia stretto la leva per annullare la missione e riportarli verso l’orbita, ma dopo lunghi secondi di silenzio il centro di comando diede il via libera a proseguire: “Go on. You’re Go for landing”.


Gli astronauti continuarono la discesa, freddi ed imperturbabili, le comunicazioni radio non lasciavano trapelare la minima emozione, la minima paura di fallire o di morire. Ma il cuore parlò per loro: in quelle fasi concitate il battito cardiaco di Armstrong raggiunse il picco massimo di 150 pulsazioni al minuto.


Quando tornò a guardare fuori, vide che il nuovo punto di atterraggio ricalcolato dal computer si trovava in un’area disseminata di massi. Troppo pericolosa. Decise allora di prendere il controllo semiautomatico, improvvisando rapidamente la ricerca di un altro sito più sicuro dove posarsi, e doveva farlo in fretta.

Sapeva che il carburante del modulo si stava esaurendo secondo dopo secondo. E sapeva anche che, come ogni altro peso, ogni singolo grammo era stato calcolato ed imbarcato con parsimoniosa precisione. Restavano solo poche manciate di secondi di autonomia prima di… un grosso problema.


Dopo diversi tentativi, a soli 30 metri dalla superficie, Armstrong scorse finalmente un’area pianeggiante.

Non c’era più tempo e, senza troppa scelta, la fece diventare il suo punto d’impatto.


Ma nessuno sapeva ora esattamente dove fosse atterrato l’Eagle. Non lo sapevano gli astronauti. Non lo sapeva il centro di controllo. Michael Collins, dall’alto dell’orbita attorno alla Luna a bordo del Columbia, scrutò il suolo lunare con il telescopio nel tentativo di localizzare i compagni. Senza successo.

Il modulo si era posato a più di sei chilometri dal punto di atterraggio inizialmente prestabilito, ma la posizione esatta sarebbe stata determinata soltanto dopo il loro ritorno sulla Terra.


Il seguito della storia lo conosciamo tutti: di lì a poche ora Neil Armstrong divenne il primo uomo sulla Luna.




SALVATI DA UN PENNARELLO.


Dopo più di 21 ore sulla superficie lunare, Armstrong e Aldrin rientrarono nel modulo lunare, pronti a riguadagnare l’orbita della Luna dove Collins li attendeva a bordo del Columbia per il riaggancio e il rientro a casa.


Eccoci al momento della verità, in cui si sarebbe deciso se il protocollo segreto fosse rimasto nei cassetti della Casa Bianca, o se fosse diventato parte della storia.


Nelle sue memorie, Michael Collins confessò che il suo terrore più profondo era proprio quello di dover lasciare i suoi compagni a morire sulla Luna e ripartire senza di loro. Dinnanzi alla sorte che li attendeva, l’essere umano a loro più vicino in quel momento sarebbe stato impotente quanto tutti gli altri sulla Terra. “Non mi suiciderò” scrisse, “accenderò i motori e tornerò a casa, ma so’ che sarò un uomo segnato a vita”.


Quando Armstrong e Aldrin rientrarono nel modulo si accorsero che una delle leve per l’accensione del motore di risalita si era spezzata all’interno dell'interruttore. Probabilmente era successo durante i preparativi di uscita o di rientro nel modulo, a causa dei movimenti degli astronauti con le loro ingombranti tute spaziali all’interno di quello spazio angusto. Ma poco importava come fosse potuto accadere, il punto era che ora non potevano più accendere i motori per ripartire.


Ed ecco che il cupo incubo della Nasa e di Collins cominciava a prendere forma.

Il protocollo segreto per lasciarli a morire laggiù, non fu mai così vicino al dover essere messo in atto.


Ma sapete bene che la storia non andò così, allora cosa li salvò? Beh… Un pennarello.

Sì, avete capito bene, si salvarono grazie ad un comune pennarello come quelli che abbiamo in casa e come quelli che ancora oggi gli astronauti usano per scrivere in assenza di gravità, grazie alla punta di feltro che trasferisce l'inchiostro per capillarità.


Aldrin lo trovò da qualche parte nel modulo e, con una calma disarmante, lo infilò nell’interruttore, usando la punta come leva per premere il contatto all’interno del pannello e attivare il motore per decollare. E badate bene, non avrebbe potuto infilare nient’altro di metallico nell'interruttore, altrimenti avrebbe mandato in cortocircuito l'intera astronave. Ma quel pennarello sì, poiché la punta di plastica e di feltro non era conduttiva,


Ed oggi quel pennarello è esposto in una teca del National Air and Space Museum, venerato come una reliquia.


Questo fu l’ago della bilancia tra la storia che tutti conoscete, e quella che avrebbe potuto essere e che, per fortuna, non fu.



CONCLUSIONE.


La storia di Apollo 11 e della conquista della Luna potrebbe essere raccontata attraverso un’infinità di prismi narrativi differenti.


Per esempio si potrebbe parlare della rivalità tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e di come questa abbia influenzato l’intero programma spaziale. Non immaginerete la quantità di aneddoti interessanti e poco noti in questa storia.


Oppure si potrebbe esaltare l’incredibile eroismo dei suoi protagonisti, decisamente persone fuori dal comune.


E si potrebbe anche parlare del contributo scientifico: non enorme a dire il vero, ma è anche grazie alle missioni Apollo se oggi conosciamo meglio la storia del nostro sistema solare.


Poi sarebbe senz’altro interessante anche analizzare quanto la corsa alla Luna sia costata alla società americana in termini economici, tecnologici e persino psicologici.


E perché no, si potrebbe perfino discutere se ne sia davvero valsa la pena.

E sarebbe interessante parlare del perché, negli ultimi 50 anni, nessun uomo ha mai più camminato sulla Luna.


Magari un giorno farò un video anche su questi temi, ma oggi ho scelto di raccontarvi una storia diversa: quella di un piano segreto… e di un pennarello.


Vi do appuntamento al prossimo episodio, e nel frattempo, cari amici, continuate ad appassionarvi di scienze.

A presto.





FONTI:

Failure Is Not an Option: Mission Control from Mercury to Apollo 13 and Beyond" (2000). G.Kranz.

https://www.nasa.gov/image-article/successful-failure

https://en.wikipedia.org/wiki/Failure_is_not_an_option

https://images.history.com/images/media/pdf/failure_is_not_an_option.pdf

https://www.bbc.co.uk/programmes/w3ct5yr2

https://en.wikipedia.org/wiki/Apollo_11#Lunar_ascent

https://www.archives.gov/files/presidential-libraries/events/centennials/nixon/images/exhibit/rn100-6-1-2.pdf

Thomas, Ashley (23 luglio 2019). "Come un pennarello con punta in feltro salvò l'allunaggio"

https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1999-jul-07-mn-53678-story.html

https://www.nytimes.com/1999/07/12/opinion/essay-disaster-never-came.html

https://www.gadgets360.com/science/features/nasa-neil-armstrong-edwin-aldrin-apollo-11-moon-landing-50th-anniversary-2056178

https://www.smithsonianmag.com/air-space-magazine/oldies-oddities

https://www.nasa.gov/history/apollo-11-mission-overview

https://www.bbc.com/future/article/20190617-apollo-in-50-numbers-medicine-and-health

https://abcnews.go.com/Politics/50-years-pen-saved-apollo-11/story



 
 
 

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